Il risveglio delle politiche giovanili

Sabato 3 Settembre 2022 la Federazione provinciale del PD di Bologna ha convocato gli iscritti under 30 per rilanciare le politiche giovanili. Di seguito il mio intervento.

A 19 anni mi sono iscritto al PD di San Lazzaro, era il 2015. Nel 2016 il PD a San Lazzaro aveva un’età media degli iscritti di 69 anni. Sono stato l’unico iscritto under 30 fino al 2020. Oggi siamo qui, più di 50 giovani, per portare idee e contenuti.

Nel 2019 c’è stato il congresso, ero pronto per fare il Segretario a San Lazzaro. Venne detto di me che non ero adatto perché ero giovane. Non perché non avevo una maggioranza sufficiente, non perché non ne avevo le capacità, non perché non ero sufficiente in grado di rappresentare. Perché ero troppo giovane.

Le stesse persone che mi dissero di no perché ero giovane, non vedevano l’ora di utilizzarmi come bandierina, perché giovane. Perché i giovani sono in mezzo quando vogliono cose, ma sono centrali quando bisogna fare bella figura.

Io sono fortunato. Nel 2022 a Bologna sono un banale maschio bianco etero. Dobbiamo svegliarci da questo finto progressismo, da un’avanguardia di facciata. Vedo a fianco a me delle ragazze che per ottenere quello che ho ottenuto io ci hanno messo il doppio dell’impegno, il doppio della fatica, il doppio del tempo. Non è solo una narrazione per sembrare di sinistra, è un problema reale, concreto, da affrontare il prima possibile. Un problema da affrontare alla radice. Non basta più lamentarsi che tra le proposte di candidature i nomi femminili sono solo marginali. Con il gruppo giovani del PD di San Lazzaro ci siamo guardati intorno e ci siamo accorti che, in un gruppo aperto a chiunque, senza alcuna barriera o selezione all’ingresso, le ragazze erano comunque in minoranza. Nessuno si permetta nemmeno di pensare che sia per un disinteresse delle giovani. Nessuno si permetta di dare la colpa alle ragazze o ai ragazzi. La narrazione dei giovani disinteressati e disimpegnati ha già da molto fatto il proprio tempo. Da quando abbiamo sei anni andiamo a scuola, ci stiamo fino almeno fino a 16 anni, chi di noi si laurea passa anche 18 anni a studiare. Tra i 10 e i 18 anni di scuola in cui ci viene ripetuto continuamente che questo mondo non è per noi, che le ragazze sono condannate a guadagnare meno dei propri colleghi maschi, che in pensione non ci andremo mai, che non troveremo lavoro perché per noi non c’è. Che questa situazione è ormai irreversibile. Dobbiamo smettere di raccontare cazzate agli studenti. Dobbiamo dirgli che devono impegnarsi, per sé stessi e per la loro comunità. Dobbiamo dirgli che questo mondo si può cambiare, che lo vogliamo cambiare e che ci riusciremo. Il mondo è già cambiato e già sta cambiando.

Sembrano passati secoli dalle grandi conquiste, ma in realtà sono molto più recenti di quanto si pensa. Grazie al PD ho avuto il piacere di conoscere Livia, una compagna di San Lazzaro, nata nel 1947 a Molinella. Livia è stata una di quelle donne che per prime hanno indossato i pantaloni. Ricordo i racconti di mio nonno che veniva deriso perché portava mia mamma in passeggino, era la donna a doversi occupare dei figli. Fatemelo dire apertamente, non penso che la mia virilità possa essere intaccata dai miei istinti paterni, dal voler un giorno essere partecipe in prima persona nel crescere i miei figli, nell’accompagnarli a scuola, nel giocare insieme, nel cambiare i pannolini, nello stare sveglio la notte quando avrà la febbre. Voglio che questi stessi desideri li possano vedere realizzati tutti, anche chi ha orientamenti sessuali diversi dal mio.

Servono profondi mutamenti sociali, dobbiamo essere pronti a combattere la battaglia affinché questi avvengano, non ci vorrà poco, non basterà qualche anno, non basterà qualche mandato amministrativo, ci vorranno decenni. Dobbiamo seminare con la consapevolezza che sarà chi verrà dopo di noi a raccogliere. Siamo noi giovani che possiamo immaginare questi mutamenti di lungo periodo.

I giovani sono il futuro, ma del futuro nessuno se ne preoccupa. Non ci importa se tra qualche decennio non avremo più un paese in cui stare, non importa cosa succederà a noi giovani quando non saremo più giovani. Parlavo con una mia coetanea, le chiedevo come si vedeva tra 10 anni. Mi ha risposto: ”indipendente”. Una battaglia più ardua di quanto era in passato. In questo paese la ricchezza è concentrata nelle mani delle generazioni più anziano e noi non possiamo nemmeno sperare di comprare una casa, di mettere su famiglia. Ci accontentiamo di regalie e bonus. 500€ ai diciottenni, 10.000€ di dotazione ai più giovani. Grazie, dobbiamo ringraziare le generazioni più grandi che ci fanno dono di tanta ricchezza, nella maniera più miope possibile. Uno specchietto per le allodole per dare l’impressione di tenerci ai giovani, quando invece le politiche di investimento vanno da tutt’altra parte. Lo abbiamo affrontato bene in uno studio condotto per Paideia sul blocco dei licenziamenti in periodo pandemico. Sapete che effetto ha avuto il blocco dei licenziamenti? Ha tutelato al massimo gli insider del mondo del lavoro, isolando al massimo gli outsider. Abbiamo costretto i giovani a cercare aiuto, a volte anche chiedendo aiuto ai genitori, trasformando la cassa integrazione come fosse l’unico ammortizzatore sociale. E i bonus sapete chi li paga? Li pagheremo noi, quando dovremo affrontare seriamente il problema del debito pubblico. In un contesto come questo possiamo dircelo: è venuto il momento di smettere di finanziare i servizi pagando con il futuro dei giovani.

Non vogliamo bonus, vogliamo la possibilità di trovare lavoro, che i nostri coetanei in tutto il paese possano trovare lavoro, anche al sud. Siamo le generazioni che non vogliono vivere per lavorare, siamo le generazioni che vogliono lavorare per vivere. Siamo quelli che guardano alla qualità della propria vita. Siamo quelli che preferiscono un lavoro meno retribuito ma in un buon ambiente al lavoro più pagato in assoluto in un ambiente negativo. Abbiamo abbandonato l’idea per cui bisogna lavorare incessantemente per avere valore, la stessa dottrina sulla salute e sicurezza del lavoro ci insegna come il presenzialismo sia un rischio enorme per le persone. Siamo la generazione che non vuole pagare oggi il proprio posto di lavoro con la moneta del proprio futuro. Non possiamo pensare di risolvere il problema della disoccupazione giovanile semplicemente riducendo le spese per i datori di lavoro che assumono giovani. Tutto questo, oltre che essere scarsamente efficace genera debito. I giovani non trovano lavoro non per scarsità della domanda, ma per difficoltà nel match tra domanda e offerta. Dalla scuola di oggi escono giovani che non possiedono né soft skills né hard skills. Il mondo è cambiato ma non siamo stati capaci di adeguare il nostro sistema scolastico al cambiamento.

L’altra sera erro alla festa dell’Unità ed ho incontrato una amica che non sentivo da parecchio tempo, lei ora lavora al Pratello, nelle comunità. Se si commettono reati che comportano l’arresto prima di avere compiuto i 18 anni, la pena che limita le libertà personali può essere l’affidamento da una comunità civile, l’affidamento ad una comunità penale o la detenzione al carcere minorile. In ogni caso, un giovane in obbligo scolastico che viene arresta e condannato alla reclusione non andrà più a scuola, perché nelle carceri minorili non c’è la scuola e la burocrazia impedisce la possibilità di frequentare una scuola pubblica. Questi ragazzi vengono chiusi tra quattro mura, potendo solo giocare alla playstation. Oltre a questo, l’unica cosa che possono fare in autonomia è andare in bagno. Devono farsi la barba? Deve essere un educatore ad accordarglielo e a dargli il rasoio e la schiuma. Vogliono mangiare una merendina, devono chiedere ad un educatore che non la dovrebbe accordare fuori orario. Devono fumare una sigaretta? Stesso discorso. Prendiamo i ragazzi più fragili della nostra comunità e li isoliamo, senza permettergli di studiare, senza che possano realizzarsi in alcun modo durante la permanenza nella custodia dello Stato. Non bisogna stupirsi se poi chi esce nel 90% dei casi commette altri reati.

Ci sono poi tanti altri che non godono a pieno dei propri diritti. Penso ai fuorisede, che hanno le porte sbarrate per votare. Allo stesso modo, perdonate la parentesi, i cittadini dell’area metropolitana nell’elezione del Sindaco. Vogliamo un mondo migliore, combattiamo e combatteremo tutti i giorni per ottenerlo, tanto c’è da fare, ma il lavoro duro non ci spaventa. Da qui oggi inizia un futuro migliore, come diceva Ernesto Che Guevara: “Quando si sogna da soli è un sogno, quando si sogna in due comincia la realtà.” È il momento di sognare, compagni.

Il costo della politica

Troppo spesso, anche nelle riunioni di partito, le riflessioni sui bilanci delli partiti politici mancano dei fondamentali.

La politica costa, e anche tanto.

I partiti nello svolgimento della propria attività politica necessitano di staff tecnici a tempo pieno. Anche la sola candidatura delle liste alle elezioni prevede delle burocrazie difficilmente affrontabili da volontari. Vi sono poi responsabilità economiche e di rendicontazione. A questo aggiungiamo che, come per amministrare una città è necessario un sindaco retribuito a tempo pieno, anche per gestire e coordinare l’attività politica di un partito ad alti livello è necessario un impegno quotidiano, incompatibile con altri lavori. Le campagne elettorali costano. SI pensi che in linea di massima il budget per le campagne elettorali in valore assoluto coincide con il numero di abitanti: in un comune di 30’000 abitanti, una campagna elettorale efficace può costare circa 30’000€, in un comune di 60’000 abitanti una campagna elettorale costa 60’000€.

Tagliare i costi della politica significa dover trovare il miglior bilanciamento tra la spesa e la riduzione dell’azione politica. Parlare del finanziamento dei partiti significa parlare di democrazia. Il finanziamento pubblico ai partiti è un baluardo di democrazia.

Provate a pensare chi vincerebbe una campagna elettorale tra un candidato che ha un budget di 30’000€ e un un candidato che ha un budget di 5’000€. Se non c’è il finanziamento pubblico, i candidati o i partiti dovranno trovare un finanziamento privato. Il fallimento della democrazia nel finanziamento privato nasce dal fatto che questo non differisce dalla sponsorizzazione commerciale. Il privato che investe dei soldi in un partito vorrà poi dei favori dal partito finanziato, allo stesso modo potrà chiedere di essere interlocutore privilegiato.

Per queste ragioni è sempre più necessario ritornare ad un finanziamento pubblico, e ambire ad un finanziamento solo pubblico.

Il lavoro è… smart!

Articolo scritto a quattro mani con Giorgio Zaccherini e pubblicato per l’associazione Paideia

Quella a cui abbiamo assistito nei primi mesi del 2020 è stata la più grande sperimentazione di Smart Work nella storia della tecnologia applicata al mondo del lavoro: una sperimentazione di massa che ha coinvolto quasi tutti i lavori aventi la possibilità di essere svolti telematicamente.

Prima della scoperta del Covid-19 in Italia solo il 2,2% dei lavoratori svolgeva il proprio lavoro con modalità di Smart Work. Durante il lockdown si è raggiunto il 24,8%, si tratta di 4 milioni e 490 mila lavoratori. Solo metà dei cosiddetti smart workers erano lavoratori di aziende private. Questo dato assume un rilievo ancor più significativo se si considera che, tra tutti i lavoratori subordinati, quelli alle dipendenze del privato sono il 74,7%. Non va omesso il fatto che la quasi totalità delle mansioni del settore pubblico hanno carattere impiegatizio d’ufficio, tuttavia l’ingente mole di lavoratori pubblici in Smart Work (il 50,9% del totale) mostra nella Pubblica Amministrazione una realtà già in grado di guardare verso il futuro. I risultati di questa sperimentazione forzata sono stati raccolti in parte dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. Il principale ostacolo al lavoro svolto in modalità telematica è la scarsa digitalizzazione del paese e dei cittadini, sia imprenditori che lavoratori. La mancanza di infrastrutture ha portato l’Unione Europea a chiedere la riduzione del consumo di traffico ai fornitori di servizi di streaming, per non sovraccaricare la rete e scongiurare i rischi di blackout del world wide web. Non ha sicuramente aiutato la campagna di lotta al 5G che alcuni amministratori hanno condotto nei propri territori. Oltre alle nuove tecnologie spesso ostacolate, dobbiamo sempre considerare anche la differenza tra la pianura e la montagna, come quella tra i centri città e le periferie: in tanti comuni dell’Appennino non arriva la fibra elettrica e in alcuni casi ci si ferma ad una ADSL a 7 mega (tecnologia d’avanguardia nel 2008, non certo nel 2020).

Il grande passaggio nell’economia dalla centralità della produzione di beni a quella dell’erogazione di servizi, coincisa con lo scoppio della rivoluzione tecnologica ad inizio millennio, ha portato alla necessità sempre maggiore di un accesso ad Internet per godere di tutti quei servizi che lo Stato eroga in applicazione dell’articolo 36 della Costituzione per assicurare a tutti un’esistenza libera e dignitosa. Da quest’anno si avvia la transizione all’utilizzo dell’identità digitale (SPID) per accedere a tutti i servizi della Pubblica Amministrazione: ben presto sarà questa l’unica modalità di accesso. L’opzione Smart Work nell’anno trascorso si è dimostrata fondamentale non solo al mantenimento del lavoro per il singolo, ma anche quale utile strumento per l’economia dello Stato. È quindi indispensabile oggi guardare l’accesso ad Internet come un diritto dell’Uomo e del Cittadino.

Non solo infrastrutture adeguate, ma anche competenze digitali di base e specifiche, sono elementi che favoriscono la diffusione e l’ampliamento della platea di smart workers. Nel 2019, ad esempio, l’Italia si piazzava a un pessimo ventitreesimo posto in Europa per le competenze digitali dei suoi lavoratori: ben il 39% degli occupati possedeva scarsa o nessuna dimestichezza con le tecnologie digitali. Un fardello che può sicuramente pesare sulla learning agility dei lavoratori italiani, ovvero sulla loro capacità e propensione ad ampliare il proprio bacino di conoscenze per adattarsi ai cambiamenti – una modalità di “sopravvivenza” rivelatasi fondamentale nella fase 1 dell’emergenza pandemica. Sul gap tecnologico della forza lavoro del Paese incide ulteriormente anche la carenza di formazione: secondo gli ultimi dati di INAPP, più di un italiano su due (tra il 53% e il 59% dei 25-64enni) potrebbe aver bisogno di riqualificazione urgente delle sue competenze, divenute o in procinto di diventare obsolete a causa dell’innovazione e del cambiamento tecnologico in atto. Eppure, altra nota dolente, in Italia ci si forma ancora troppo poco: solo il 24% degli adulti prende parte ad attività di formazione e istruzione, contro una media OCSE del 52%, e la stragrande maggioranza di questi sono già occupati (81%), a voler indicare quante persone ancora fuori dal mercato del lavoro non si istruiscano abbastanza.

Deficit strutturali delle infrastrutture digitali, lavoratori poco avvezzi all’uso delle tecnologie e l’assenza di una formazione continua non delineano certo un quadro confortante per la promozione e la diffusione nel nostro paese dello smart working quale lavoro “intelligente” del futuro. Tuttavia, la presenza di questi fattori ostacolanti (su cui il Recovery Plan si impegna a intervenire) non ha evitato che il lavoro agile divenisse, durante la fase più dura della crisi sanitaria, il principale strumento di contrasto al contagio da Covid-19, permettendo così a imprese e lavoratori di preservare, al tempo stesso, salute e continuità del business. Un primo e parziale successo delle aziende e delle persone è stata infatti la capacità di reazione e resilienza organizzativa, di saper rispondere e adattarsi repentinamente agli stravolgimenti imposti dal virus. Nonostante l’impreparazione generale, in pochi giorni milioni di lavoratori italiani hanno sperimentato gioie e dolori del lavoro da remoto, assaggiando in parte la comodità di una migliore conciliazione tra vita professionale e privata e in parte rischiando di sovrapporre eccessivamente le due sfere. Per manager e direzioni HR, invece, la pandemia è stata l’occasione per quell’accelerazione definitiva nell’introduzione di nuove tecnologie digitali e nel r-innovare i propri stili di leadership all’insegna di una maggiore autonomia, flessibilità e orientamento ai risultati. Dalla moltitudine di survey e ricerche condotte sul tema, emerge la volontà comune di imprese e lavoratori a rilanciare e mantenere lo smart working come arma di lungo periodo per incrementare la produttività e godere dei suoi tipici vantaggi (organizzativi, economici e sociali). Questo, però, previo superamento dell’attuale fase emergenziale che caratterizza il lavoro agile in Italia e di riportarlo nell’alveo originale della L. 81/2017, la quale istituisce l’accordo tra datore di lavoro e lavoratore alla cui libera contrattazione è affidata la definizione di tempi, luoghi, obiettivi, diritto alla disconnessione e tutti gli altri aspetti connessi alla fattispecie. La deroga alla sottoscrizione del patto individuale e la conseguente attivazione unilaterale della modalità agile costituiscono, infatti, le caratteristiche principali della forma semplificata di smart working tutt’ora in essere, la cui scadenza è legata alle continue proroghe dello stato d’emergenza nazionale (l’ultima, in ordine di tempo, è fissata per il 30 aprile).

La lunga parentesi di “liberalizzazione” dello smart working dovrà risolversi anche in riferimento a come e se innovare la normativa del 2017, in un dibattito che pare dominato tra un orientamento più incline a modificare significativamente l’assetto normativo e uno più sensibile alle preoccupazioni di chi teme una legislazione invasiva (e per questo contraria alle logiche sottese all’idea di un lavoro realmente smart). Già a settembre scorso, infatti, l’allora Ministra del lavoro sen. Nunzia Catalfo aveva convocato le parti sociali per intavolare il discorso circa l’opportunità di modificare la legge attualmente in vigore. Al momento però il discorso è sospeso in relazione alla recente formazione del nuovo governo Draghi in cui la titolarità del Ministero competente è passata all’On. Andrea Orlando.

Una delle poche – ma solide – certezze che lascia in eredità questa pandemia è la consapevolezza che nemmeno il lavoro sarà più lo stesso. L’emergenza sanitaria e le sue conseguenze hanno segnato infatti uno spartiacque tra un prima e un dopo in cui pare sempre più difficile tornare indietro, avendo intravisto cosa c’è al di là del confine. Agli occhi di chi scrive qualsiasi cambiamento esogeno, specie se attinente al mondo del lavoro, non può mai essere passivo, ma va governato, guidato e indirizzato. Il futuro del lavoro (e il lavoro del futuro) richiede quindi che esso venga gestito: gli attori principali dovranno prendere in mano le redini del gioco. In questo, almeno, ci auguriamo che l’Italia possa giocare un ruolo da protagonista!

La parità salariale di genere è legge dal 2006, ma fa un po’ ridere…

Articolo pubblicato per l’associazione Paideia

In Italia c’è un decreto legge del 2006 che sancisce il divieto di discriminazione tra donne e uomini nella definizione della retribuzione. Tuttavia, anche a distanza di 15 anni dall’emanazione di quelle norme, continuiamo ad osservare dati di importanti differenze salariali. Le ragioni circa questo apparente mistero sono tutt’altro che fantascientifiche o complottiste, ma si spiegano chiaramente nell’applicazione tecnica delle norme sul lavoro ed in particolare sul calcolo della busta paga di ciascun dipendente. Cerchiamo di capire cosa c’è che non va…

La busta paga non è altro che il riassunto di come viene calcolato l’importo da corrispondere al dipendente. Chi ha visto anche solo una volta una busta paga sa che questa è divisa in tre parti. Nella parte alta troviamo le anagrafiche e i valori della retribuzione, nella parte centrale troviamo tutti i calcoli legati agli accadimenti del mese (ferie, permessi, malattie, tasse e contributi,…) e nella parte bassa troviamo i contatori delle ferie, dei permessi, delle tasse, del tfr e, soprattutto, l’importo netto. Quello che ci interessa per capire da cosa è generato il divario salariale si trova nella parte alta della busta paga, ossia la definizione della retribuzione.

La Costituzione indica come ogni lavoratore abbia diritto ad una retribuzione commisurata al proprio lavoro, retribuzione che permetta “un’esistenza libera e dignitosa”. Ci si rende subito conto, dunque, delle enormi difficoltà dovute alla moltitudine di tipologie di lavoro, di ambiti e di campi. In Italia, per rispondere a questa esigenza di definizione, si ricorre ai contratti collettivi, ossia degli accordi scritti tra datori di lavoro e lavoratori (nelle vesti di associazioni di categoria e sindacati) all’interno dei quali sono indicate delle tabelle con i valori minimi retributivi. Questa è la prima voce indicata: la paga base, al di sotto della quale non si può mai scendere. La legge, infatti, sostiene che un lavoratore non possa essere pagato meno della paga minima individuata nel contratto collettivo, essa non può variare nell’importo. È dunque necessario un altro valore che componga la retribuzione in cui inserire quel quid pluris (“di più”) che lavoratore e datore di lavoro hanno concordato. Questo valore prende il nome di superminimo. Se, per esempio, vengo assunto per svolgere una mansione la cui paga base è 10,00€, ma sono molto bravo e il mio datore di lavoro vuole pagarmi 15,00€, la mia paga sarà composta da 10,00€ di paga base e da 5,00€ di superminimo. Vi possono poi essere altri valori che compongono la retribuzione, come gli scatti di anzianità o il terzo elemento.

Ecco dunque che la differenza salariale tra donne e uomini è riscontrabile proprio nel superminimo, il cui valore è assolutamente libero. La legge infatti concede la massima libertà per tutte quelle scelte che sono in favore del lavoratore. Il superminimo in particolare si considera, per lo più, come un aumento della paga base in funzione del merito, questo definito e riconosciuto dal datore di lavoro a suo giudizio insindacabile. Come può quindi la legge dettare degli obblighi di parità su una valutazione di merito? Come si può definire il merito in una legge? La parità salariale di genere è quindi soltanto accertabile nella paga base, ma questo non basta sicuramente per garantire la non discriminazione.

Immaginiamo un’azienda che debba assumere due persone che svolgono esattamente la stessa mansione e che decida di assumere un ragazzo e una ragazza, entrambi alla prima esperienza lavorativa, entrambi della stessa età. Verrebbe da dire che, se fossero definiti dei superminimi diversi, si potrebbe impugnare per discriminazione salariale, ma non è così facile. Il datore di lavoro infatti potrebbe motivare quella diversa retribuzione complessiva in virtù di una decantata maggiore disponibilità (di orario, di straordinari, di flessibilità,…) del ragazzo rispetto alla ragazza. Come si comporterebbe in questo caso un giudice? Probabilmente con un nulla di fatto. Una precisazione tecnica sul punto è doverosa: su questo argomento e su queste casistiche la giurisprudenza è carente perché i giudici non hanno ancora avuto modo di esprimersi su un numero rilevante di fattispecie.

Questa lettura tecnica non è certamente l’unica causa del problema. Si sommano almeno tre cause: il regime dei superminimi, il caso del part time e il soffitto di cristallo. Altra problematica, infatti, è quella della conciliazione vita-lavoro: le donne usufruiscono maggiormente del part time perché devono ancora accollarsi la maggior parte degli impegni familiari. Ma attenzione! Tutte e tre le problematiche trovano una sola soluzione… il cambiamento sociale!

Smart Work, sicuramente il futuro, ma non così!

Il principale ostacolo allo smart work come modalità di lavoro diffusa è la mancanza di infrastrutture. Troppe zone d’Italia non sono coperte da connessioni internet ad alta velocità, e troppo spesso non sono proprio coperte da connessioni internet.

Si pensa troppo spesso che basti la volontà ed un computer per fare smart work, ma non è così. La Fondazione Studio Consulenti del Lavoro evidenzia come ci sia una notevole differenza tra lo Smart Work e l’Home Working. Lavorare in smart work significa lavorare all’interno di un’organizzazione che permetta di svolgere gli stessi servizi, con orari ben definiti, ma in qualsiasi luogo. L’home working, quello che quasi tutti hanno sperimentato durante il lock down è semplicemente il lavoro da casa. La differenza è abissale per i diritti del lavoratore, per il suo modo di lavorare serenamente e di vivere una vita tranquilla non fatta solo di lavoro. È anche abissale la differenza per le aziende, per il rendimento che quel lavoratore ha e per i risultati che riesce a portare a termine.

Dobbiamo tenere bene a mente una cosa: lo smart work è una modalità di lavoro subordinato, non parasubordinato o autonomo.

Non si può dimenticare che anche lo smart work è lavoro e deve quindi sottostare a delle norme e degli obblighi di sicurezza sul lavoro. I rischi sono certamente molto diversi, meno fisici e più psicologici, ma sono comunque rischi da tenere in considerazione ed affrontare.

Non venga poi in mente di pensare ad una regolamentazione sulla sicurezza che sia fatta di contratti collettivi. La sicurezza è tale se è per tutti, altrimenti non è sicurezza. È necessario rivedere ed espandere la legge 81/2001. I contratti collettivi sono diversi da settore a settore e non possiamo pensare che la sicurezza di qualcuno sia maggiore o minore in base al settore in cui è occupato.

Essere sicuri nel proprio lavoro e poterlo svolgere agilmente è sicuramente un’ottimo risultato che ancora oggi manca in queste modalità, non dobbiamo però ricordare che esiste una diversa forza tra datore di lavoro e lavoratore. Rispose a questa esigenza la legge 300/1970, ma quando il legislatore ha scritto l’articolo 4 sul telecontrollo non poteva certo immaginare le condizioni e la tecnologia di 50 anni dopo, ossia oggi.

È vero che lo smart work è stato inserito per la prima volta nell’ordinamento dalla legge Bassanini nel 1997, ma è anche vero che nel 1997 erano davvero in pochi ad avere un telefono in tasca, oggi tutti ci portano un computer.

Bisogna avviare una seria riflessione, basata sullo studio dell’avanzamento tecnologico, su quelle che sono le condizioni di smart work, quelli che sono i rischi e quelle che dovranno essere le soluzioni.

Unioni dei Comuni bellissime! …ma cosa sono?

Le Unioni dei Comuni hanno significato e trovano una loro utilità solo se i Comuni che le ponpongono credono in questo strumento e vogliono esserci. Se alcuni non sono motivati è meglio per tutti che non facciano parte dell’Unione. Questo deve essere il nostro punto di partenza. Il problema da cui voglio partire è proprio quello legato alla volontà di un comune. Questa la individuiamo tendenzialmente nella volontà dei suoi amministratori, ma tale assimilazione si basa su un preconcetto non ovvio, ossia il concetto di rappresentanza. Dove la cosiddetta opinione pubblica non ha, appunto, una opinione su un tema politico, l’amministratore non può fare altro che operare alla cieca, non necessariamente rappresentando la volontà dei cittadini, che sono il comune. San Lazzaro soffre proprio di questo problema: ovvero la mancanza di dibattito in merito nell’opinione pubblica. A dire il vero la situazione è anche peggiore, perché non manca solo l’opinione sulle possibili soluzioni del problema che si ha davati, ma manca proprio la conoscenza del problema (ossia di rispondere alla domanda “Cosa facciamo con l’Unione dei Comuni?”) Penso che se crediamo nella democrazia partecipativa, come suggerisce il nome del nostro partito, dobbiamo accollarci uno dei compiti, a parer mio centrale, che i padri costituenti ci hanno affidato, ossia dobbiamo riscoprire la vocazione pedagogica del partito. Il comune (inteso nel senso più ampio del termine) di San Lazzaro ha preso una decisione senza avere una volontà che la guidasse. Penso che con il Segretario Comunale e con il Segretario di Zona abbiamo avviato il giusto percorso. Facciamo formazione, capiamo di cosa si parla, poi facciamo politica, come si fa nel territorio, coinvolgendo i cittadini, per poter avere effettivamente una volontà che ci guidi verso il futuro, sia questo nell’Unione, fuori dall’Unione o un qualsiasi altro senso, ma non possiamo percorrere altra strada che non sia il coinvolgimento dei cittadini.

Attenzione alle nuove povertà

Questa emergenza per la lotta al SARS-CoV-2 sta pesantemente destabilizzando il nostro modo di essere comunità. Le abitudini di tutti sono stravolte e l’intero comparto produttivo è in difficoltà. A causa di questa situazione vediamo persone e famiglie, che fino a pochi mesi fa erano economicamente tranquille, cadere in povertà. Ci sono nuovi poveri che lo Stato non sa essere tali. In questo momento emergenziale è necessario trovare un sistema che permetta di individuarli ed aiutarli. Una volta usciti dall’emergenza sarà necessario rivedere l’intero sistema di welfare ed i progetti che erano stati pensati in un contesto molto diverso da quello che vivremo nei prossimi anni. Una cosa però è certa: non si potrà prescindere da un finanziamento basato sulla progressività. Per uscire da questa situazione è necessario che chi ha di più aiuti chi ha di meno. E così dovrà essere anche una volta finite l’emergenza e la ricostruzione.